Si armano ogni mattina di microscopi, alambicchi e si nutrono di formule scientifiche. La loro formazione avviene nell'ambito biomedico, ci mettono passione ma questo non significa che sia un percorso di crescita semplice e facile.
Frequentano l'Istituto di Istruzione Superiore "F. Selmi " di Modena e questa mattina hanno momentaneamente lasciato il camice e le loro aule attrezzate per venire ad ascoltare un'altra storia: l'attentato del 2 agosto 1980 avvenuto a Bologna ad opera di neofascisti dei NAR con le coperture di apparati dello Stato, finanziati e preparati dalla P2 con la complicità di pezzi importanti delle Istituzioni degli anni '60-'70-'80.
Erano in 36, le classi 5aD e 5aC con le loro prof. Laura, Federica, Simona e Daniela mentre noi -Rossella Ropa ed io - li stavamo aspettando accanto a quello squarcio nel muro che nella stazione di Bologna segna il punto dove avvenne lo scoppio della bomba che causò 85 vittime e 216 feriti.
Passare al racconto di come nasce un attentato e di come si sviluppa la strategia che puntava a far arretrare la democrazia nel nostro paese è il compito della docente e Rossella li ha subito introdotti nell'argomento facendo loro prendere visione di quei segni della memoria che ricordano la strage, raccontando al contempo pezzetti di storie individuali, di famiglie e di persone venute da lontano che quì, a Bologna, fermarono la loro vita, i loro progetti, i loro sogni. Ed ancora storia sui colpevoli e sui processi, sulle condanne e sulle scarcerazioni, sui depistaggi e sui mandanti, su pezzi delle Istituzioni che non vollero fare ciò a cui erano chiamati a fare: la difesa della nostra democrazia.
Una lunga camminata per risalire via Indipendenza, portarci all'interno del Palazzo Comunale, in quella sala fredda seduti vicini un po'
per riscaldarci l'un l'altro poi per ascoltare la storia di un autista che su un autobus della linea "37" portò lontano dalla stazione i poveri resti di uomini, donne, bambini. Quel mio ripetuto racconto di mani che scavarono per ore, mani che sanguinavano ma non si fermavano ed una umanità di gente che stava insieme, che soccorreva, che piangeva, che reagiva. E loro -questi giovani che avevo davanti- che stavano in silenzio, facendomi sentire meno solo anche nel momento in cui l'emozione ti prende alla gola. Poi, quando il racconto finisce , loro non si sentono pronti a chiedere, a fare domande, sembra quasi che lo vivano come una rottura di quel clima di empatia che si è creato per decine di minuti, tra di noi, e non vogliono farlo. Eppure io me li sono sentiti così vicini!
Non finisce mai questo incontro con chi non sa. Si rinnova giorno dopo giorno la sensazione che più incontri si fanno e più se ne debbono fare, ancora. E' ciò che proveremo a portare avanti perchè questa richiesta nasce dai loro sguardi a volte stupiti nel sentire parlare di tanta violenza ed a volte sorpresi che questa storia, queste infinite storie di sofferenza e violenza le apprendano non sui libri di scuola ma da chi la scuola ormai non la frequenta più!
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